Vivere nelle grandi città è difficile? È perché il cervello è fatto per la tribù.

da | Neuroscienze

Il cervello non è adeguato ad una vita nelle grandi città. Preferisce una dimensione sociale intima, come quella delle tribù e delle piccole comunità.

È innegabile che l’urbanizzazione selvaggia sia in una qualche maniera collegata al malessere dilagante. Possiamo analizzare perché paghiamo a caro prezzo, in termini di benessere psicologico, l’esserci agglomerati in megalopoli innaturali: c’è un motivo fisiologico molto preciso, legato alla costituzione del cervello, che causa questo malessere.

E poiché, parafrasando Winston Churchill, bisogna guardare indietro per andare avanti, scopriamo cosa ci è successo e come risolverlo.

Quando è cambiato tutto.

Per quanto l’essere umano esista da qualche milione di anni, nelle sue varie forme evolutive, l’homo sapiens è l’unica specie vivente del genere homo che oggigiorno popola il pianeta, e lo fa da circa 200 mila anni. Eppure, solo 12 mila anni fa è avvenuta la più grande rivoluzione: la trasformazione che portò l’uomo, da cacciatore e raccoglitore qual era, a diventare stanziale e dedito all’agricoltura. Si considera questa una delle tre grandi trasformazioni che la nostra specie ha vissuto, la prima essendo l’invenzione del linguaggio e l’ultima quella attuale, ovvero la digitalizzazione.

La società matriarcale.

Come si viveva fino a 12 mila anni fa? La società era di stampo matriarcale, ed è  bene chiarire fin da subito un equivoco: non significa che comandassero le donne, bensì che non c’erano gerarchie, c’era una sorta di parità dei sessi e l’assenza di un’autorità centrale. L’istituzione della famiglia era completamente diversa. Nelle società anche dette gilaniche (termine coniato dall’archeologa lituana Maria Gimbutas utilizzando le radici greche gy – donna – e an – uomo) i bambini restavano con la mamma fino ai tre anni di età in un rapporto quasi simbiotico, poi venivano affidati ai fratelli maggiori. La famiglia era molto diversa da come la intendiamo oggi: non c’erano madre, padre e figlio, bensì tre fratelli vivevano insieme a tre donne non imparentate tra loro e ai rispettivi figli. Passavano la notte aggregati in bande, che erano composte da circa 45 elementi. Le bande si raggruppavano in clan, che constava di circa 200 elementi, cinque clan formavano un villaggio, quindi circa mille persone. Il popolo era formato da un numero che variava da 5 a 10 villaggi.

Questo tipo di comunità permetteva di vivere in assenza di malattie infettive, poiché i popoli erano chiusi, ovvero vivevano separati gli uni dagli altri. Si lavorava un paio di ore al giorno, quanto serviva per procacciarsi il cibo; chi cacciava condivideva le prede con tutti gli altri, dividendole in parti uguali: non esisteva la proprietà; il tempo libero veniva passato nell’inventare storie e raccontarsele. La guerra era abbastanza frequente, dato che chiunque non fosse del proprio popolo era necessariamente un nemico da combattere, ma le battaglie non si svolgevano con la pioggia, ad esempio.

L’avvento del patriarcato.

Ad un certo punto, per fattori ambientali contingenti, inizia ad avanzare del cibo. Questo permette all’uomo la stanzialità, che consente anche di iniziare a coltivare il cibo. Però le scorte alimentari hanno la necessità di essere protette dai nemici. Quindi nasce la figura che per prima si differenzia dagli altri: il soldato. I popoli iniziano ad riunirsi assieme laddove c’è più cibo, e la vita già si fa più dura rispetto quella dei cacciatori-raccoglitori: mantenere i campi implica aumentare le ore quotidiane di lavoro, e la nascita del commercio e l’aggregazione favoriscono l’emergere e la diffusione delle malattie infettive a causa dei nuovi virus portati dagli “estranei”. Aumenta anche la violenza, poiché cibo e proprietà vanno difesi. Si fanno più figli, quasi uno all’anno, mentre prima la donna partoriva circa ogni tre anni.

Il resto è storia: 8 mila anni fa nascono le prime città, poi i primi stati e da lì gli imperi.

L’evoluzione del cervello.

Nel frattempo, la struttura fisiologica dell’uomo muta. Si estende la corteccia cerebrale ed aumenta il peso del cervello. All’inizio, l’evoluzione cerebrale è dovuta per lo più a fattori ambientali, come la maggior disponibilità di cibo calorico e l’implementazione dell’uso degli utensili, successivamente sono i fattori sociali a subentrare. Per meglio capire questo concetto, osserviamo cosa succede nella comunità degli scimpanzé: essi vivono in gruppi di cinquanta, e un volta che raggiungono questa cifra, la comunità si scinde poiché la specie non è in grado di adattarsi a numeri più grandi. Anche l’essere umano, specie homo, ha in un certo senso mantenuto la stessa proporzione numerica: si considera di media che ognuno di noi abbia 150 conoscenti (ricordate i clan di cui si parlava prima?), circa quindici amici e cinque familiari. Le classi a scuola hanno trenta ragazzi, il battaglione consta di 150 soldati. Quindi non si tratta di un’abitudine sociale, ma della capacità delle strutture cerebrali di far fronte ad un certo tipo di ambiente ideale.

A questo punto nasce spontanea una domanda: cosa succede alle persone che hanno un cervello adeguato a sopravvivere a mille concittadini quando invece si trovano a vivere in città popolose, in cui la conta si fa di milione in milione? Bastano i numeri: un milione e mezzo di persone ogni anno si dà la morte perché incapace di sopportare la vita. Certo, ci sono molte meno guerre, si stima che ogni anno per cause belliche muoiano 400mila persone. La globalizzazione propone un modello foriero di solitudine per mancanza di relazioni sociali significative: siamo sempre di più, ma le relazioni sono sempre di meno. Essendo comunque l’essere umano un ente di natura, è la natura stessa a porre rimedio, instillando il bisogno di un ritorno alla semplicità.

La soluzione.

Di anno in anno aumenta il numero di eco-villaggi e di piccole comunità ecosostenibili. Il nuovo modo di vivere ha distrutto l’ambiente, ne siamo consapevoli, e non sono solo le politiche contro l’inquinamento che possono risanare la situazione, ma anche il tornare a un modello più sostenibile, più locale.

Come in quasi tutti gli affari che ci riguardano, la risposta è sempre l’educazione e l’istruzione, lo studio di nuove soluzioni tecnologiche a basso impatto e lo studio di forme di economia parallele (baratto, banca del tempo, gruppi di acquisto solidale, per citarne alcuni) con l’unico obiettivo di tornare a vivere in un mondo fatto per gli esseri umani.

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